La lunga marcia di una buona legge

Il 16 maggio del 1978 veniva promulgata la legge 180, nota anche come legge Basaglia,

dal nome del suo più prestigioso sostenitore. In seguito la stessa veniva integrata nella legge istitutiva il Servizio Sanitario Nazionale n. 833 del 23 dicembre 1978, sancendo fin dall’art. 1, un indissolubile collegamento fra diritto alla salute, dignità e libertà: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il Servizio Sanitario Nazionale. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana”. La legge 180 quindi aboliva la precedente legge del 1904 che istituiva i manicomi e affidava al Servizio Sanitario Nazionale la competenza e la gestione della salute mentale. In tal modo veniva radicalmente rivoluzionata la gestione della malattia mentale e l’Italia si poneva all’avanguardia nel mondo, rappresentando una vera e propria punta di diamante (uno dei rari casi nell’ambito della medicina). Praticamente la maggior parte dei Paesi della terra ci hanno seguito in questo percorso coraggioso sia quando (raramente) hanno legiferato in tal senso, sia quando (spesso) ne hanno di fatto adottato i principi.

Non che siano mancati momenti in cui gli aspetti critici superavano quelli positivi, ma guardando indietro di trentun’anni, non si può non essere positivamente meravigliati di quanta strada è stata fatta e di quale qualità. Fino ai primi anni ’80 l’applicazione della legge è stata largamente disattesa, vi furono momenti difficili e conflittuali. Negli anni ’90 fu adottata una programmazione nazionale che, solo verso la fine di quegli anni, condusse alla definitiva o quasi chiusura dei residui manicomiali. La precedente legge del 1904 configurava i manicomi come istituzioni pubbliche per difendersi da soggetti “pericolosi” per sé e per altri oppure tali da generare “pubblico scandalo”. Il binomio malattia mentale e pericolosità è stato a lungo ritenuto indissolubile, automatico, nonostante gli studi al riguardo avessero (e tutt’ora hanno) smentito tale assunto. Gli internamenti erano spesso a tempo indeterminato e disposti dagli organi di pubblica sicurezza e giudiziari. L’effetto concreto era che chi finiva in manicomio era un recluso e, lungi dal guarire, spesso cronicizzava o sviluppava addirittura al suo interno la patologia psichiatrica peggiore. L’abolizione di tale istituzione, associata alla all’integrazione della psichiatria nel Servizio Sanitario Nazionale è stata una scelta giusta sia per i pazienti sia per gli psichiatri stessi, con il loro pieno recupero sotto il profilo della dignità di una branca specialistica della medicina. Furono così aperti i reparti di psichiatria (SPDC) all’interno degli ospedali pubblici e collegati poi con tutta una serie di Centri Territoriali (CPS, CRT, CP,CD) per la gestione multimodale e in fasi diverse della più grave delle malattie mentali: la schizofrenia.

Cercando di valutare con il giusto distacco critico improntato al rigore concettuale e neutralità ideologica, non si può non riconoscere che la legge ha consentito sensibili progressi dal punto di vista clinico, rendendo non inevitabile il decorso verso la cronicizzazione, la grave e invalidante disabilità e dal punto di vista etico-sociale restituendo dignità umana ai malati di mente.

Ovviamente non solo la legge, ma anche il progresso nelle terapie ha contribuito a questo salto di qualità, che ha destato tanti sentimenti di ammirazione nel mondo intero Facendo un breve excursus storico delle terapie praticate, siamo passati dalle docce, acque termali, emetici, sedia rotatoria, canfora, digitale, oppio e i suoi derivati agli antipsicotici di ultima generazione efficaci e sicuri in mani esperte. In mezzo ricordiamo vari altri trattamenti: ergoterapia, piretoterapia, ipnosi terapia, insulinoterapia (Sakel), terapia convulsivante, elettroshock (inventato dall’italiano Cerletti) e infine inquietanti e devastanti terapie chirurgiche quali la lobotomia e la leucotomia. Se andava bene, insomma, in molti casi si veniva reclusi e basta, altrimenti si potevano subire anche danni notevoli e irreversibili. Non che mancassero psicofarmaci efficaci e tollerabili, visto che sono comparsi negli anni ’50. Si trattava di un atteggiamento mentale sbagliato anche da parte degli stessi psichiatri, oltre che determinato da principi legislativi obsoleti. Gli abusi ci sono ancora oggi, ma si sono ridotti di molto e confinati nel segreto dei luoghi di cura, essendo proibiti per legge.

Se si può riassumere, sul piano pratico, il modello terapeutico che si cerca di realizzare è istituire una rete di servizi territoriali facenti capo ad un reparto ospedaliero che possano coprire tutti i bisogni di cure, dalle crisi acute allo stato di compensazione clinica da parte di un’équipe che prende in carico il paziente, garantendo una rigorosa continuità terapeutica e assicurando i legami con l’ambiente familiare e sociale di provenienza. Più o meno qualcosa del genere è ciò che viene fatto in tutta Europa, America e tanti altri Paesi del mondo.

Aspetti critici per i quali alcuni vorrebbero riformare la legge hanno a che fare con dimissioni selvagge, abbandono del malato mentale cronico, macchinosità dell’iter burocratico per il ricovero coatto (TSO) ecc. In verità non sembrano il prodotto della legge stessa, quanto della sua lacunosa o cattiva applicazione. Ovviamente in quanto tale la legge 180 non è in assoluto la migliore delle leggi possibili, ma allo stato attuale risponde bene ai principi etici e terapeutici riguardanti la malattia mentale.

L’attuale maggioranza parlamentare di centro-destra ha nel suo programma il proposito di modifica della legge 180. In ogni caso sarebbe auspicabile che fossero salvaguardati i seguenti punti:

  1. inclusione dei Servizi Psichiatrici nel Servizio Sanitario Nazionale;
  2. integrazione e collegamento dei Servizi Psichiatrici in Dipartimenti che assicurino la presa in carico globale e la continuità terapeutica;
  3. non riesumare in nessuna forma i manicomi;
  4. non istituire forme di legislazione speciale per la psichiatria;
  5. carattere di eccezionalità dei Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO);
  6. fondi sufficienti per applicazione della legge ossia tra il 5 e il 7% delle spese sanitarie, così come accade nel resto dell’Europa.

Da Report andato in onda il 3 maggio ’09.

Viene riportato che della maggior parte dei pazienti ricoverati nei manicomi solo trentamila su ottantamila hanno trovato una sistemazione sul territorio, l’un per cento è rientrato in famiglia, altri si sono suicidati o sono diventati dei senza fissa dimora.

E’ stato presentato un servizio su un Istituto in Calabria, definito anche “la clinica degli orrori” per presunti abusi sui malati di mente, persino sparizione di alcuni di essi e per commercio di organi. L’istituto è stato recentemente chiuso per un gravissimo stato di degrado, 7 anni di mancata manutenzione, cartelle cliniche abbandonate, un buco di circa 3 milioni e 400 mila euro, lasciando a casa circa 500 dipendenti che vi lavoravano. In passato i lavoratori erano arrivati al numero di 1800 tant’è che l’istituto veniva chiamato anche la FIAT del cosentino. La regione pagava circa 13 milioni di euro all’anno, nonostante fosse già stato evidenziato il grave stato di degrado in cui versava l’istituto. Diverse centinaia di pazienti sono stati dirottati precipitosamente verso strutture comunitarie più piccole non sempre adeguate a loro volta. Nonostante la regione dovesse provvedere a verificare i requisiti per l’accreditamento, di fatto non è mai stato revocato né sono state comminate sanzioni. Per ogni paziente vi è una specie di “dote” da tremila euro a testa al mese per cui si sarebbe scatenata l’offerta verso altri centri privati convenzionati e non. Il personale è stato fatto sgomberare con la forza dalla polizia il 17 marzo del corrente anno.

Un altro servizio riguarda l’ex manicomio di Bisceglie in Puglia, fondato nel 1922 con circa 950 dipendenti e con altrettanti pazienti. Anche in questo caso vengono segnalate soluzioni estemporanee come trasformare l’istituto in luogo per disabili o disabili geriatrici, mantenendo gli stessi pazienti e la convenzione come istituto ortofrenico. In pratica i pazienti psichiatrici diventano disabili per decreto.

Altre realtà non sempre in linea con i principi della legge 180 non mancano nemmeno a Milano e Torino oppure Napoli. In Piemonte, che pure si colloca all’avanguardia, ci sono pazienti che vengono collocati dalle ASL in pensioni a una stella senza o quasi alcun contatto terapeutico con lo psichiatra di riferimento. Torino risulta avere il più alto numero di gruppi appartamento d’Italia. Uno psichiatra sempre di Torino è risultato tra quelli che affittava un suo appartamento ai pazienti inviati dall’ASL. A Collegno nel 1996 era ancora attivo un manicomio con circa 500 pazienti ricoverati. Se Torino piange, Milano non ride Anche nel capoluogo lombardo vengono mostrate realtà fortemente critiche. Nel quartiere Molise – Calvairate sembra essersi radunata la più alta concentrazione di pazienti psichiatrici al mondo e non è dato sapere se è il frutto della casualità, di invii da parte dei servizi psichiatrici o di mal gestione delle risorse pubbliche (ad esempio le case popolari).

Un altro punto critico emerso durante il servizio giornalistico riguarda l’applicazione dei DRG, che è il sistema di rimborso delle prestazioni sanitarie. Spesso infatti si assiste a dimissioni selvagge perché in caso di degenza prolungata oltre le due settimane non si avrebbe diritto al rimborso. Ciò avviene a dispetto del fatto che molti ricoveri necessiterebbero di tempi più lunghi. Per converso viene fatta vedere una Casa di cura convenzionata che riceve rimborsi fino ad oltre i 40 giorni.

Dal Corriere della Sera del 10 maggio 2009

Si riconosce il valore innovativo della legge 180 quando ad esempio l’autore dell’articolo, Claudio Magris scrive: “Si tratta di una fondamentale conquista civile, che estende il riconoscimento della dignità umana a una categoria di persone cui si tendeva a negarlo”. E più avanti: “Un malato schizofrenico è stato spesso percepito unicamente come uno schizofrenico, quasi fosse soltanto la mostruosa e astratta incarnazione di una malattia, anziché un individuo colpito da una malattia”. Si riferisce inoltre del manicomio come luogo di segregazione e di controllo sociale della diversità e della bizzarria (anche la più inoffensiva). Si riportano le esperienze di Basaglia prima a Gorizia dal 1963 al 1968 e poi a Trieste dal 1971 al 1979. Viene smentita da parte dell’autore dell’articolo l’accusa che vorrebbe Basaglia come sostenitore di tesi che ridurrebbero la malattia mentale a cause sociali o come mero effetto dell’emarginazione sociale. Queste erano le tesi dell’antipsichiatria. In realtà Basaglia non trascurò mai l’aspetto medico e scientifico di cui era un rigoroso studioso. Un’ultima interessante annotazione, Magris la rivolge al fatto che non esistono servizi territoriali a costo sostenibile dove si possano curare gli ammalati 24 ore su 24, “come se la crisi ovvero il disagio psichico dovesse rispettare un orario di apertura”. Non si può non concordare con quanto sopra riportato.

Per terminare

Tra le più importanti strutture di rilievo al fine di realizzare i principi di base della 180 vi sono le Comunità Protette (CP), che vengono classificate in alta, media e bassa intensità a seconda della complessità degli interventi e delle risorse utilizzate. Quelle a bassa sono spesso degli appartamenti per gruppi di pazienti, solitamente non più di 7. I pazienti che vi accedono sono relativamente autosufficienti e, a volte, arrivano a questo “traguardo” dopo essere transitati dalle strutture a media e ad alta intensità. Queste ultime possono ospitare fino a un massimo di 20 utenti, anche se non sempre questo limite viene rispettato. Le CP sono quasi sempre in mano al privato sociale e possono essere convenzionate o meno con il SSN. La permanenza non dovrebbe superare i 2-3 anni e in questo tempo dovrebbe essere realizzato il progetto/programma riabilitativo personalizzato. In questo modo si eviterebbe la riedizione, pur se in forme diverse, dei manicomi sia per quanto riguarda la dimensione, il numero massimo degli utenti, i tempi di permanenza, le cure adeguate e soprattutto il percorso evolutivo previsto verso sempre maggiori gradi di libertà, autonomia ed indipendenza. Per approfondire l’argomento si può consultare il libro del dr Ascanio Vaccaro “Abilitazione e Riabilitazione” edito da McGraw-Hill. Purtroppo occorre realisticamente constatare che anche in questo caso non sempre le cose vanno come previsto da leggi e regolamenti. Si va da strutture al confine e, a volte, anche oltre il confine della legge, come io stesso ho avuto modo di constatare e di denunciare ad esempio all’ASL di Como e alla regione Lombardia, fino a casi più virtuosi come le strutture di cui si riportano alcune immagini significative. Tutto ciò dipende anche e soprattutto dai decreti attuativi delle singole regioni, dalla solerzia dei funzionari e delle Aziende Ospedaliere, dai controlli e dalle verifiche degli accreditamenti (anche e soprattutto delle strutture pubbliche), dalla politica e dalle volontà di applicare una buona legge, riformabile, ma di cui vanno preservati i principi di base. Non si può certo imputare i tanti disservizi segnalati alla legge 180, quanto semmai alla sua non attuazione. Del resto in Italia siamo abituati. Persino la legge del 1904 che istituiva i manicomi, all’alba del 1978 non era stata ancora completamente realizzata.

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